Il patrimonio nasce in cucina …e spesso aveva un grembiule, non una giacca bianca
C'è una stranezza nella lingua: alcune professioni le decliniamo senza esitazioni (professore/professoressa, dottore/dottoressa), altre sembrano resistere (muratore, falegname), e poi ci sono parole che restano uguali per tutti: chef, per esempio. Suona neutro, internazionale, autorevole. Ma quando si parla di una donna, spesso chef scivola in "cuoca" come se, all'improvviso, il lavoro diventasse più domestico, più piccolo, quasi un gradino sotto.

Eppure, se oggi la cucina italiana può festeggiare un traguardo storico, è anche merito del domestico, del quotidiano, di un lavoro femminile che non ha avuto bisogno di una brigata né di una giacca bianca per fare cultura.
Il 10 dicembre 2025 l'UNESCO ha iscritto "La cucina italiana, tra sostenibilità e diversità bioculturale" nella Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell'Umanità: un riconoscimento che non premia un singolo piatto, ma un intero modo di vivere, tramandare e condividere il cibo.
Un riconoscimento che parla di pratiche, rituali, gesti, memorie: la trasmissione dei saperi da una generazione all'altra, dove la donna ha avuto per secoli un ruolo determinante, quasi sempre senza un riconoscimento equivalente.
Nelle narrazioni gastronomiche contemporanee il protagonista è spesso lo chef: figura autorevole, mediatica, quasi sempre maschile. Eppure la cucina italiana è nata nelle case, nelle corti, nei paesi, nelle cucine piccole dove si ragionava più di necessità che di estetica. Erano le donne che creavano, che mettevano le mani in pasta. La cucina, per lunghissimo tempo, è stata il loro spazio di responsabilità: nutrire, far quadrare conti e stagioni, trasformare il poco in abbastanza, e l'abbastanza in festa.
E le donne non sono state solo protagoniste delle cucine domestiche: hanno avuto .un ruolo fondamentale anche nella formazione del gusto e nella divulgazione. Ne è prova "La Cucina Italiana", nata nel 1929, che per decenni è stata un punto di riferimento e che fin dall'inizio ha dato spazio e centralità alle donne nell'editoria di cucina, rendendo "importante" ciò che veniva liquidato come "povero".

E poi ci sono i libri che hanno educato generazioni: "Il Talismano della Felicità" di Ada Boni, un ricettario che ha formato cuoche di casa e anche professionisti, diventando un manuale di consultazione capace di attraversare il tempo.
Accanto a lei, è impossibile non ricordare Petronilla, pseudonimo di Amalia Moretti Foggia, medico e divulgatrice. Con la rubrica "Tra i fornelli" sulla Domenica del Corriere, tra anni Trenta e Quaranta, portò nelle case degli italiani ricette concrete e, insieme, le prime semplici informazioni nutrizionali. E per farsi ascoltare anche oltre i pregiudizi, arrivò perfino a firmarsi con uno pseudonimo maschile in un'altra veste: "il dottor Amal".
Quella sapienza era fatta di gesti e di recupero: pane raffermo che diventa pappa, ribollita, canederli, polpette. Legumi che arricchiscono zuppe e paste. Verdure dell'orto che, con un filo d'olio e una manciata di sale, diventano piatti "importanti".
Ed è anche la definizione più vera di sostenibilità, prima ancora che diventasse una parola di moda: non sprecare, rispettare l'ingrediente, usare tutto, valorizzare il territorio. Non a caso, tra le parole chiave legate a questo riconoscimento UNESCO ricorre proprio la sostenibilità.
Certo, esistono gli chef, i grandi ristoranti, le firme. E oggi, finalmente, anche molte donne sono protagoniste nelle cucine dell'alta ristorazione italiana. Ma vale la pena ricordarlo: se oggi il mondo celebra la cucina italiana come patrimonio dell'umanità, molto spesso quel patrimonio è nato così, con ingredienti semplici, messi insieme con amore e intelligenza.
